"Qualcosa era successo" di Gabriele Andreani

Qualcuno ha fatto l’occhiolino al caldo sole estivo, ha detto una parolina dolce alla persona che gli stava accanto e mi ha afferrato per il collo proprio quando soffiavo il naso alla farfalla rossa e gialla che mi stava impollinando.
Sono muta, mentre già tremavo e impallidivo come solo i fiori di campo sanno fare, non un grido di dolore è uscito dal pistillo, non una lacrima dal calice, non una goccia di sangue dalla corolla. Ma non sono sorda. Non le ho dimenticate le parole che uno sconosciuto dalla voce poco rassicurante ha pronunciato prima di quel gesto vile, folle e turpe. No, non le ho dimenticate affatto quelle parole umane.

 

Quelle parole le custodisco ancora nell’ovario:
«Altea, luce dei miei occhi, battito del mio cuore, respiro delle mie labbra... immortale mia quiete... non mi lasciare, ti prego, ti scongiuro, non mi mollare...»
E subito dopo un’altra voce, stridula e più arrabbiata.
«Smettila Luca... ti conosco bene ormai... non posso più restare con te, non funziona, sei troppo possessivo, troppo invadente, troppo...»
«Troppo innamorato di te, stavi per dire...»
«No, l’amore è un’altra cosa Luca, credimi! Il tuo è solo egoismo! Non si ama così una donna... amare significa non mentire, non raccontare frottole, tu mi hai combinato solo casini in queste ultime settimane, mi hai mancato di rispetto troppe volte...»
La voce stridula non è riuscita a finire la frase. La voce poco rassicurante ha balbettato cicalecci incomprensibili, che non sono riuscita a tradurre nel linguaggio dei fiori. Ma queste altre parole le ho potuto cogliere perché erano vicinissime:
«Altea, perché mi parli in questo modo? Rifletti... in fondo che ti ho fatto? Se qualche volta ti ho mancato di rispetto è stato perché... perché... perché ti amo immensamente!»
«Luca, per favore, smettila... non ho più voglia di parlarne, mi hai stufato! Stufato! Hai capito?»
Silenzio. E poi ancora quella voce poco rassicurante, diventata più persuasiva:
«Cambierò, amore mio, vedrai... dammi un’altra possibilità...»
«Cambierò, cambierò, cambierò... quante volte te l’ho sentito dire! Balle stratosferiche, mio caro Luca!»
«Balle? Ma dai! Cambierò, vedrai, amore mio, te lo prometto... Ti ho mancato di rispetto qualche volta? Beh, forse hai ragione! Forse ho commesso qualche errore di troppo... ti chiedo scusa, perdonami amore, non succederà mai più...»
Nessuno ha più parlato per un certo tempo. Poi, soffiando sui miei petali, la voce persuasiva ha esclamato all’improvviso:
«Prendi questo fiorellino, amore mio, questo pavido germoglio... guarda com’è carino!»
M’è mancata la terra attorno alle radici! Mi sono percepita lontana anni luce dalla farfalla rossa e gialla che mi stava fecondando, dalla strada di campagna, dal fossato che gorgoglia.
«Una violetta del pensiero... che bella!»
«Si dice che questi fiori siano segno di amore sincero, di dedizione e fedeltà... raccontano che sui loro petali è possibile scorgere il volto della persona che si ama...»
Di me stavano parlando quei due! A parte la farfalla rossa e gialla che s’interessava a me solo quando non pioveva – la furbetta nel frattempo impollinava altri fiori, si sussurrava tra i cespugli - nessuno, fino a quel momento mi aveva degnato di un solo sguardo. Nemmeno un bruco vagabondo, nemmeno un alticcio topo di campagna, nemmeno un uccellino stonato o senza voce... E improvvisamente, guarda un po’ che mi sta accadendo! Sono una regina tra due bipedi parlanti che stanno per lasciarsi! Una regina, io! Io che sono nata selvatica sul ciglio di un sentiero accidentato che si perde chissà dove... ma che dico, le vertigini mi fanno sragionare, di una malinconica mulattiera fuori mano... proprio a me, maledizione, doveva capitare una simile disgrazia, a una violetta spensierata che non dava grattacapi a chicchessia, che sarebbe probabilmente crepata nel fiore degli anni durante una gelata... ora vengo persino annusata, io!
Ero in preda al panico. Non ho potuto ascoltare né vedere altro. Intorno a me, un minuto dopo, tutto il buio, misterioso e fitto, di una piccola casetta di pelle o di stoffa che dondolava dalla spalla di Altea, di una donna dalla voce spigolosa che correva, cadeva e si rialzava. E, dulcis in fundo, quella stessa sera mi hanno seppellito in questo camposanto imbrattato d’inchiostro che Altea ha chiamato il mio caro diario. Basta! Che ho fatto di male per meritarmi tutto questo?
Sono muta, non so piangere, non so leggere, sono selvatica, ma non sono sorda e ho pure un’ottima memoria. Altea, una notte in cui mi pare stesse piovendo – altrimenti che erano quei tic tic là fuori sui vetri e sui muri? - dopo aver posato la penna sul secrétaire accanto alla finestra - mio Dio, quante parole nuove, anche straniere, ho appreso in poco tempo! - ha letto ad alta voce questi inquietanti schizzi d’inchiostro:
“Sono esausta. Da quando l’ho lasciato, quattordici giorni proprio oggi, Luca è sempre più aggressivo, invadente, umorale. Sto male, sono depresso, mi scriveva fino a ieri su whatsapp. Sono il tuo passato prossimo, il tuo presente imperfetto, sarò il futuro semplice e felice della tua vita, mi ripeteva dieci, cento, mille volte...
Quando non gli rispondevo, me lo ritrovavo ovunque andassi: al parcheggio, al supermercato, sotto il portone di casa, all’uscita dalla palestra con un mazzo di violette del pensiero in mano, un braccialetto d’oro da poco prezzo, due biglietti per l’ultimo film di Tarantino o Zalone, una raccolta di poesie di Baudelaire... e io che rifiutavo tutti quei regali, che tiravo sempre dritto, che non avevo voglia di ascoltarlo mentre mi correva appresso gridando che mi amava perdutamente, che anelava il mio corpo da modella, la mia procace intelligenza, che sarei stata sempre e soltanto sua.
Poi, due giorni fa, è successa una cosa che non avrei mai voluto accadesse. O forse no, forse doveva accadere prima o poi. Giovedì non lo avevo visto in giro, Luca non mi aveva mai chiamato. Fuori c’era ancora un po’ di luce. Finalmente, mi ero detta sorridendo dopo aver salutato i colleghi dello studio, Luca è sparito dalla mia vita!
Sono quasi morta dallo spavento quando me lo sono trovato in carne e ossa, rannicchiato in un angolo come un bimbo che piange di nascosto, dentro l’ascensore del palazzo dove abita la mamma... che spavento mi sono presa!
Aveva un aspetto terrificante. Mentre l’ascensore già saliva, mi ha quasi bucato le palle degli occhi con uno sguardo che non gli avevo mai visto prima. Aveva le pupille nere e consumate e, intorno alla bocca, un che di appiccicoso, di bavoso che puzzava di serotonina e di follia.
L’ascensore si è fermato. Davanti a noi un muro bianco.
Luca, dopo essersi rialzato, si è portato un dito alle labbra come a volermi suggerire che non era proprio il caso che urlassi. Ero terrorizzata. Ma lui, a dispetto dei miei timori, non ha neppure provato a toccarmi. Tremava mentre cercava le parole che doveva dirmi.
«Ascoltami Altea... non voglio farti del male, non te ne farò mai, ho solo bisogno di parlarti, non qui, non ora... di dirti cose che non sai, poi forse capirai e cambierai idea su di me... e se così poi non fosse, pazienza, me ne farò una ragione e non mi vedrai mai più... amore, amore mio... domani sera, alle otto... passo a prenderti io... non negarmi, ti prego amore, l’ultima occasione che forse mi rimane per farmi di nuovo volere bene...»
Ho detto sì, va bene, sì, okay, a domani sera, senza neppure rendermene conto, quasi di sfuggita. Non me la sentivo di dirgli che si doveva rassegnare.
Luca non mi ha toccato. Nemmeno ci ha provato. Ha spinto il pulsante verde. Ha aperto la porta dell’ascensore. È scappato via. Ma prima era scoppiato a piangere.
Domani sera e poi mai più. Non ho nulla da temere. Luca non è capace di fare del male a nessuno. Solo una volta, ai tempi dell’università - me ne aveva parlato un giorno in macchina dopo che un gatto nero ci aveva tagliato la strada - aveva fatto una stupidaggine, ma poi se n’era pentito subito. Aveva dato dell’hashish al gatto della vicina, che era collassato sul pavimento. Luca era strafatto, o forse ubriaco, o forse tutte e due le cose insieme. Tutto qui.
Tu, violetta del pensiero, che mi dici? Ci devo uscire, vero, domani sera con Luca? Sì che ci devo uscire, l’ultima occasione non si nega mai all’uomo che ti ama... Sai, violetta mia, da stamattina mi frullano in testa questi versi fatti apposta per noi due:
ʻIl sole ti baciava, il vento ti cullava - una mano ti ha reciso, spegnendo il tuo sorriso - il tuo profumo è volato in cielo, l’abito che indossi ora è quello nero - tra le pagine di un libro sogni per te un’infinita primaveraʼ.
Non annuisci, non sorridi, selvatica violetta? Che ti aspettavi? Baudelaire forse? Di meglio purtroppo non sa fare il gorgoglìo mediocre di questa penna fragile e confusa.
Buonanotte mon amour, sono sfatta. Domani sera, a quest’ora, tutto sarà finito. Domani, prima di andare a letto, ti leggerò qualcosa da I fiori del male...”
Io non ho detto nulla. Che ne sa della poesia una violetta del pensiero che non è mai andata a scuola e che fino a ieri viveva in un angolo di terra incolto ai piedi di un ippocastano? Fino a ieri, figuriamoci, ignoravo addirittura a cosa servisse un vocabolario, che aspetto avesse, se profumasse, di che colore fossero i suoi petali. Tuttavia alla poetessa Altea, se non fossi nata muta, se avessi avuto un po’ più di forza nell’androceo, avrei detto in modo deciso ma garbato di non uscire sabato sera con Luca perché non si può mai sapere quale piega possono prendere certe questioni che sembrano non dovere mai finire. Ma la mia corolla non ha bocca, non ha labbra il gineceo, e poi, insomma, questa notte ho solo voglia di sognare un’infinita primavera.

Da lontano, forse dal salotto, venivano delle voci. Di chi erano? Qualcuno si domanderà forse più tardi, ma dall’interno di un quaderno, credetemi, non era facile capire a chi appartenessero quei suoni umani. Provateci voi, se vi riesce... il est pratiquement impossible! Io sono muta, sono selvatica, mastico un po’ di francese soltanto da pochi giorni ma non sono affatto sorda e quelle voci le ho sentite venire proprio dal salotto.
Poi, nel cuore della notte, ho sentito muoversi dei passi nella stanza accanto e, subito dopo, altri passi, poco rassicuranti, dietro a quelli. E i tre tocchi del pendolo all’ingresso. E contemporaneamente qualcosa di molto simile a un lamento incalzante e supplichevole, a un pianto remoto e vuoto, a un sinistro sogghigno, all’ululato di un cane randagio... no, forse di un lupo...
Il mattino dopo molti bipedi sono entrati in questa casa, scattando fotografie, rovistando nei cassetti, spalmando polverine dappertutto.
Qualcosa era successo.